TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA 
                        Sezione Sesta Civile 
 
    Il  giudice,  dott.ssa  Alessandra  Imposimato,  sciogliendo   la
riserva assunta all'udienza del 17 marzo 2016, visti  gli  atti  e  i
documenti allegati al fascicolo della causa iscritta al n.  2291/2013
r.g., avente ad oggetto «risoluzione del contratto di  locazione  per
inadempimento - uso abitativo», e pendente tra Casciaro Mario  (parte
attrice) e Versaci Giovanna Carmela e  Pelilli  Renato  Carlo  (parti
convenute), osserva: 
        1.  Sussistono  le  condizioni  per  rimettere,  alla   Corte
costituzionale, la questione di legittimita' dell'art.  1,  comma  59
della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato», legge  di
stabilita' 2016),  per  violazione  degli  articoli  3  e  136  della
Costituzione, apparendo questa non manifestamente infondata,  nonche'
rilevante ai fini del decidere. Cio' per quanto di seguito esposto. 
        2. Con il  ricorso  introduttivo  della  lite  (art.  447-bis
codice di procedura civile)  il  sig.  Casciaro  Mario,  evocando  in
giudizio i signori Versaci Giovanna Carmela e Pelilli  Renato  Carlo,
chiedeva  al  tribunale  di  risolvere  il  contratto  di   locazione
abitativa inerente all'immobile in Roma via  Pasquale  Baffi  n.  26,
meglio  descritto  in  atti,  a  motivo  dell'inadempimento  di  essi
convenuti-conduttori. 
    L'attore adduceva, in particolare, che: 
        le parti avevano  concluso,  in  data  28  ottobre  2005,  un
contratto di locazione abitativa, per il corrispettivo mensile  di  €
1.600,00; 
        tale contratto era stato registrato, dalle  parti  convenute,
solo in data 22 settembre 2011,  presso  l'Agenzia  delle  entrate  -
Ufficio Roma 1, ed i convenuti, a decorrere dal  successivo  mese  di
ottobre 2011, avevano principiato a  versare  la  minor  somma  di  €
480,00 mensili, a loro dire calcolata ex art. 3, comma 8, lettera  c)
del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23; 
        l'autoriduzione  del  canone  locativo,  come  motu   proprio
operata dai conduttori,  doveva  ritenersi  (sotto  diversi  profili)
illegittima, si' da configurare inadempimento grave ed idoneo  a  far
luogo alla pronuncia di risoluzione. 
    Per  tali  ragioni  l'attore  chiedeva,  oltre   alla   pronuncia
risolutoria ex art. 1453 del codice civile, la condanna dei convenuti
al pagamento della differenza tra canone convenuto  in  contratto  (€
1.600,00 mensili) e le inferiori  somme  effettivamente  pagate,  dai
conduttori, a titolo  di  corrispettivo  contrattuale,  dal  mese  di
ottobre 2011 in avanti. 
    Entrambi i convenuti, costituiti  in  giudizio,  contestavano  le
ragioni delle pretese di controparte, ed argomentavano in merito alla
legittimita'  e  correttezza  (contrattuale)  del  proprio   operato,
assumendo di avere semplicemente adeguato la  propria  condotta  alle
disposizioni dell'art. 3 (cedolare secca  sugli  affitti),  comma  8,
lettera c) del decreto legislativo 14  marzo  2011,  n.  23  (recante
«Disposizioni in  materia  di  federalismo  Fiscale  Municipale»),  a
termini del  quale,  nel  caso  di  registrazione  del  contratto  di
locazione, che non fosse tempestivamente eseguita agli effetti  delle
disposizioni di cui al decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.
131/1986 (Testo unico delle disposizioni in  materia  di  imposta  di
registro,  art.  17),  «...  il  canone  annuo  di  locazione»  fosse
autoritativamente «fissato in misura pari  al  triplo  della  rendita
catastale, oltre l'adeguamento, dal secondo anno, in base al  75  per
cento dell'aumento degli indici ISTAT dei prezzi al  consumo  per  le
famiglie degli impiegati ed operai». 
    3. Tali i fatti controversi,  dopo  la  sopravvenuta  liberazione
dell'immobile di  proprieta'  dell'attore,  da  parte  dei  convenuti
(avutasi in corso di causa), la difesa Casciaro ha coltivato (v. note
conclusive) la domanda di condanna al pagamento della differenza  tra
canone indicato nel contratto  di  locazione  abitativa  tardivamente
registrato (agli effetti del decreto del Presidente della  Repubblica
n. 131/1986), ed  il  canone  effettivamente  versato  dai  convenuti
(conduttori), dal mese di ottobre 2011 sino al mese  di  luglio  2015
(rilascio dell'immobile), nonche' calcolato in misura (mensile)  pari
ad 1/12 del triplo della rendita catastale degli immobili costituenti
oggetto  del  contratto  locativo  inter  partes,   in   applicazione
dell'art. 3, comma 8, lettera c) del  decreto  legislativo  14  marzo
2011, n. 23. 
    Dunque il tribunale e' chiamato a stabilire se i convenuti  siano
tenuti a versare,  alla  controparte  locatrice,  quanto  dovuto  per
contratto (a suo tempo) non versato, avvalendosi  delle  disposizioni
di cui all'art. 3, comma 8, lettera c) del  decreto  legislativo  sul
federalismo  fiscale,  come  gia'  (precariamente)  prorogate,  negli
effetti, dall'art. 5, comma 1-ter del decreto-legge  24  marzo  2014,
convertito con modificazioni in legge n. 80/2014. 
    Ebbene,  all'esito  della  declaratoria  di   incostituzionalita'
dell'art. 5, comma 1-ter del decreto-legge 24  marzo  2014  (sentenza
Corte costituzionale n. 169/2015, su cui oltre),  e  dell'entrata  in
vigore della norma contenuta nell'art. 1, comma 59,  della  legge  28
dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilita' 2016),  di  cui  si  dira'
appresso, dovrebbe nuovamente  negarsi,  all'attore,  il  diritto  di
pretendere la differenza tra il canone  convenzionale  (indicato  nel
contratto scritto e registrato) e il canone  sanzionatorio  (mensile,
pari ad  1/12  del  triplo  della  rendita  catastale  dell'immobile)
calcolato  in  base  alla  norma  da  ultimo  menzionata;   giacche',
peraltro,  la  conformita'  di  tale  disposizione  di   legge   alla
Costituzione e' dubbia, che' parrebbero profilarsi - nuovamente -  le
questioni  gia'   esaminate   e   ritenute   fondate,   dalla   Corte
costituzionale,  nella  recente  sentenza  16  luglio  2015,  n.  169
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22  luglio,  n.  29),  sopra
nominata,  sussistono  le  condizioni  per  sollevare,  nel  presente
giudizio, questione incidentale  di  legittimita'  costituzionale  in
riferimento alla norma da ultimo richiamata,  e  per  rimettere  alla
Corte costituzionale la  valutazione  dell'eventuale  violazione  dei
parametri costituzionali appresso indicati. 
    4. Sotto  il  profilo  della  non  manifesta  infondatezza  delle
questioni  qui   sollevate,   merita   ripercorrere   brevemente   la
successione delle disposizioni di legge  intervenute  a  regolare  la
fattispecie -  dedotta  in  giudizio -  del  contratto  di  locazione
abitativa che non sia portato a registrazione, presso l'Agenzia delle
entrate, nel rispetto del termine di cui all'art. 17 del decreto  del
Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n.  131,  recante  «testo
unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro». 
    4.1 Si rammenta che: 
        - l'art. 3 del decreto  legislativo  n.  23/2011,  pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 67 del 23 marzo 2011, introduttivo di  un
sistema, alternativo al regime ordinario vigente, di  tassazione  del
reddito  ritratto  dalla  locazione  di  immobili  destinati  ad  uso
abitativo (cosiddetta «cedolare secca sugli  affitti»),  al  comma  8
cosi' testualmente prescriveva: 
        «8.  Ai  contratti  di  locazione  degli  immobili   ad   uso
abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i  presupposti,  non
sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la
seguente disciplina: 
          a) la durata della locazione e' stabilita in quattro anni a
decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d'ufficio; 
          b) al rinnovo si applica la disciplina di cui  all'art.  2,
comma 1, della citata legge n. 431 del 1998; 
          c) a decorrere  dalla  registrazione  il  canone  annuo  di
locazione  e'  fissato  in  misura  pari  al  triplo  della   rendita
catastale, oltre l'adeguamento, dal secondo anno, in base al  75  per
cento dell'aumento degli indici ISTAT dei prezzi al  consumo  per  le
famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone
inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti». 
    Chiaro l'intento del legislatore di «colmare» il vuoto  normativo
lasciato dall'art. 1, comma 346  della  legge  n.  311/2004,  tuttora
vigente, a tenore del quale: 
        «I contratti  di  locazione,  o  che  comunque  costituiscono
diritti relativi di godimento, di unita' immobiliari ovvero  di  loro
porzioni,  comunque  stipulati,  sono  nulli   se,   ricorrendone   i
presupposti, non sono registrati». 
    Nell'interpretazione ed applicazione data,  dalla  giurisprudenza
di merito, della norma da ultimo riportata (art. 1, comma  346  della
legge n. 311/2004) sta infatti, ad avviso di chi scrive, buona  parte
delle  ragioni  della  nascita   delle   disposizioni   sanzionatorie
contenute nell'art. 3 del decreto  legislativo  n.  23/2011,  che  e'
oggetto di esame. 
    Cio' in quanto: 
        l'art. 1,  comma  346  della  legge  n.  311/2004,  tutt'oggi
operante, collega la nullita' del contratto esclusivamente  alla  sua
omessa registrazione, tacendo  con  riguardo  all'ipotesi  in cui  il
contratto sia registrato oltre il termine (trenta giorni)  prescritto
dall'art. 17 decreto del Presidente della Repubblica n. 131/1986  (di
approvazione  del  «Testo  unico   delle   disposizioni   concernenti
l'imposta di registro»); 
        d'altronde,  a  termini  del  menzionato  testo  unico  delle
disposizioni  in materia  di  imposta  di  registro,   l'obbligo   di
registrazione del  contratto  di locazione  persiste  anche  dopo  la
scadenza del  termine  di  trenta  giorni,  dalla  sua  stipulazione,
stabilito nel medesimo  corpo  legislativo,  tantoche',  in  caso  di
registrazione  tardiva,  la   parte   che   abbia   intempestivamente
provveduto alla  denunzia  del  contratto,  al  fisco,  e'  tenuta  a
versare, oltre all'imposta di registro precedentemente  non  versata,
interessi e sanzioni pecuniarie; 
        pertanto, in assenza di esplicita sanzione di nullita' per il
caso di registrazione tardiva (oggi regolata dal  novellato  art.  13
della legge n. 431/1998, nella formulazione introdotta  dall'art.  1,
comma 59 della legge stabilita' 2016), i giudici  di  merito,  e  tra
essi il tribunale di  Roma,  avevano  argomentato  (ubi  lex  tacuit,
noluit) che il contratto comunque registrato (presto o  tardi)  fosse
in ogni  caso  esente  da  nullita',  e  quindi  valido,  efficace  e
vincolante, e cio'  anche  in  applicazione  del  principio  generale
contenuto nell'art. 10, comma terzo dello  Statuto  dei  diritti  del
contribuente; 
        il giudice civile  aveva  quindi  relegato  la  registrazione
tardiva del contratto nell'ambito di una «violazione di  disposizioni
di rilievo esclusivamente tributario», di per se' inidonea a produrre
la nullita' del contratto; 
        ancora, il giudice civile, ricordando che  la  convalida  del
contratto affetto da nullita' (art. 1423 del codice civile), nei casi
in cui e' ammessa dalla legge, ha tipicamente effetto retroattivo (si
veda ad es. Cassazione  n.  6773.2013),  e  cio'  perche'  altrimenti
l'efficacia del negozio sarebbe  imputabile  non  alla  volonta'  del
disponente, ma esclusivamente al  negozio  di  convalida,  non  aveva
avuto difficolta' a qualificare la fattispecie disciplinata dall'art.
1, comma 346 legge n.  311/2004  in  termini  di  «nullita'  sanabile
retroattivamente»,  ed  aveva  posto  un'analogia,   o   meglio   una
similitudine con l'istituto della condizione sospensiva di  efficacia
del  contratto;  per  queste  ragioni  la  registrazione   e'   stata
qualificata,  dai   tribunali,   alternativamente   in   termini   di
fattispecie  sanante,  con  effetto  retroattivo,  la  nullita'   del
contratto, ed in termini di condicio iuris di efficacia del contratto
che,  laddove  avverata,  e'  in  grado  di  attribuire  efficacia  e
vincolativita' all'accordo negoziale, con effetto  retroattivo  (art.
1360 del codice civile). 
    Sennonche' l'interpretazione dell'art. 1, comma 346 citato,  come
invalsa  nella  giurisprudenza  di  merito,   non   veniva   ritenuta
soddisfacente per le ragioni dell'Erario, dacche'  nella  prassi  dei
tribunali veniva, in fin dei conti,  negata  l'operativita'  di  tale
disposizione, in caso di tardiva  registrazione  del  contratto;  non
comportando pertanto,  tale  fattispecie,  alcun  riflesso  sotto  il
profilo del rapporto tra privati, la disposizione dell'art. 1,  comma
346, legge n. 311/2004 non avrebbe  costituito,  in  conclusione,  un
idoneo incentivo alla tempestiva denunzia, al fisco, del contratto di
locazione (per se' produttivo di reddito). 
    Plausibilmente  per  tali  ragioni,  veniva   cosi'   introdotta,
all'art. 3, comma 8 del decreto legislativo  n.  23/2011,  una  norma
che, per la prima  volta,  regolava  (e  sanzionava)  esplicitamente,
anche sotto l'aspetto del rapporto negoziale tra le parti contraenti,
la tardiva registrazione del contratto di locazione abitativa, e cio'
faceva mediante l'etero-integrazione degli  elementi  principali  del
negozio,  quali  la  misura  e  l'entita'  del  canone   dovuto   dal
conduttore. 
    L'intento di «completare» la prescrizione dell'art. 1, comma  346
legge  n.  311/2004  (infatti  esplicitamente  richiamata  nel  testo
dell'art. 3  citato  al  comma  9)  veniva  realizzato  mediante  una
disposizione «premiale» che, a beneficio dei conduttori che  avessero
denunciato al fisco il contratto non tempestivamente  registrato  dal
locatore, lo integrava d'autorita' (articoli 1339,  1419  del  codice
civile) con clausole particolarmente  favorevoli  all'inquilino,  che
gli avrebbero assicurato una considerevole  stabilita'  del  rapporto
locativo, a nummo uno. 
    Le disposizioni - di effetto particolarmente deflagrante  per  la
platea dei destinatari - di cui  all'art.  3,  comma  8  del  decreto
legislativo n. 23/2011, venivano completate dal comma 10 dello stesso
art. 3, che cosi' testualmente recitava: 
        «10. La disciplina di cui ai commi 8 e 9 non si  applica  ove
la registrazione sia effettuata entro sessanta giorni dalla  data  di
entrata in vigore del presente decreto». 
    In breve  il  legislatore  del  decreto  legislativo  n.  23/2011
assegnava, erga omnes, un termine di «moratoria» (scaduto il 6 giugno
2011, e cioe' al sessantesimo giorno successivo all'entrata in vigore
del decreto legislativo, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  del  23
marzo 2011, con la vacatio di quindici  giorni  di  cui  all'art.  73
della Costituzione) per portare alla luce  i  rapporti  di  locazione
(abitativa) che fossero  (in  quel  momento)  in  tutto  o  in  parte
«sommersi». 
    Proprio dall'assegnazione di un termine cosiffatto, e dal  tenore
testuale dell'art. 3, comma 10 del decreto  legislativo  n.  23/2011,
che non avrebbe avuto senso alcuno laddove le nuove  disposizioni  in
tema di canone sanzionatorio e di durata  legale  dei  contratti  non
tempestivamente  registrati,  fossero  state  applicabili  solo  agli
accordi locativi  stipulati  successivamente  alla  loro  entrata  in
vigore,  la  giurisprudenza  (anche  del  tribunale)  aveva   desunto
l'immediata applicabilita' delle disposizioni sanzionatorie di cui ai
commi 8 e  9  dell'articolo,  anche  ai  contratti  in  corso,  che -
validamente stipulati per iscritto - non fossero stati ancora oggetto
di registrazione all'Agenzia delle entrate. 
    4.2 E' noto inoltre che la Corte costituzionale, con la  sentenza
n. 50/2014, depositata  in  data  14  marzo  2014,  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale del 19 marzo 2014, acclarava l'illegittimita'  dei
commi 8 e 9 dell'art. 3 decreto legislativo n. 23/2011, per  «difetto
di  delega»  (violazione  dell'art.  76   della   Costituzione),   in
particolare  rilevando  che  tali  disposizioni,  intese  alla  lotta
all'evasione fiscale, esorbitassero sia gli obbiettivi che i  criteri
della delega conferita, al governo, con la legge n. 42/2009. 
    La Corte chiariva, in motivazione: 
        «Il tema della lotta all'evasione fiscale, che costituisce un
chiaro obiettivo dell'intervento  normativo  in  discorso,  non  puo'
essere configurato anche come criterio per l'esercizio della  delega:
il quale, per definizione, deve indicare  lo  specifico  oggetto  sul
quale interviene il legislatore delegato, entro  i  previsti  limiti.
Ne' il riferimento alle «forme premiali» anzidette puo' ritenersi  in
alcun modo correlabile con il  singolare  meccanismo  «sanzionatorio»
oggetto di censura. 
        Del resto - e come puntualmente messo in evidenza dai giudici
a quibus - nella citata legge di delegazione si  formula  un  preciso
enunciato, formalmente e sostanzialmente evocabite quale principio  e
criterio direttivo generale, secondo il quale - nel richiamare  (art.
2, comma 2, lettera c)), «razionalita' e coerenza dei singoli tributi
e del sistema tributario nel  suo  complesso»  (compresi,  dunque,  i
profili di carattere sanzionatorio  ed  i  «rimedi»  tecnici  tesi  a
portare  ad   emersione   cespiti   o   redditi   assoggettabili   ad
imposizione) - espressamente  prescrive  di  procedere  all'esercizio
della delega nel «rispetto dei principi  sanciti  dallo  statuto  dei
diritti del contribuente di cui alla legge 27 luglio 2000,  n.  212».
Statuto che, a sua volta, come ricordato, prevede, all'art. 10, comma
3, ultimo periodo, che «Le  violazioni  di  disposizioni  di  rilievo
esclusivamente tributario non possono essere causa  di  nullita'  del
contratto»:  con  l'ovvia  conseguenza  che,  tanto  piu',  la   mera
inosservanza del termine per la  registrazione  di  un  contratto  di
locazione  non  puo'  legittimare   (come   sarebbe   nella   specie)
addirittura una novazione - per factum principis - quanto a canone  e
a durata. 
        Ne'  appare  superfluo  soggiungere  che  gli   obblighi   di
informazione del  contribuente,  parimenti  prescritti  dal  predetto
statuto, risultano nella  specie  totalmente  negletti,  operando  la
denunciata «sostituzione» contrattuale  in  via  automatica,  solo  a
seguito della mancata tempestiva registrazione del contratto. 
        All'indomani della sentenza ora riportata, e  considerato  il
precetto dell'art. 136 della Costituzione («Quando la corte  dichiara
la illegittimita' costituzionale di una norma di legge o di  un  atto
avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia  dal  giorno
successivo alla pubblicazione della decisione»), il tribunale giammai
avrebbe potuto dare  applicazione  delle  disposizioni  dell'art.  3,
comma 8, lettera c)) del decreto legislativo  n.  23/  2011,  essendo
state queste giudicate contrarie a Costituzione, e come tali  espunte
dall'ordinamento, come se non ossero state mai introdotte (v. in  tal
senso Corte costituzionale n. 73/1963: «la norma contenuta  nell'art.
136 della Costituzione, sulla quale poggia il  contenuto  pratico  di
tutto il sistema garanzie costituzionali, toglie immediatamente  ogni
efficacia (dal giorno successivo alla pubblicazione della  decisione)
alla norma dichiarata illegittima;  della  quale,  pertanto,  non  e'
consentito al  legislatore  ordinario  di  prolungare  la  vita  sino
all'entrata in vigore della nuova legge»; Cassazione  n.  10783.2014:
«Orbene, come la giurisprudenza di legittimita' ha  chiarito  ...  le
pronunce di accoglimento del giudice delle  leggi -  dichiarative  di
illegittimita' costituzionale - eliminano la  norma  con  effetto  ex
tunc,  con  la  conseguenza  che  questa  non  e'  piu'   applicabile
prescindendo dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in  epoca
anteriore o successiva alla pubblicazione  della  pronuncia,  perche'
l'illegittimita'  costituzionale  ha  per  presupposto  l'invalidita'
originaria  della  legge  -   sia   essa   di   natura   sostanziale,
procedimentale  o  processuale -  per  contrasto  con   il   precetto
costituzionale.   Pertanto   non   e'   possibile   distinguere   tra
applicazione diretta, cioe' riferita ad atti formati  successivamente
alla norma dichiarata illegittima, e  applicazione  indiretta,  cioe'
riferita ad atti formati prima della  pubblicazione  della  pronuncia
d'incostituzionalita', perche' anche in tale ultimo caso  il  giudice
non puo' ritenere legittima un'attivita' svoltasi in  conformita'  di
una norma poi dichiarata incostituzionale. Infatti in materia vige il
principio che gli effetti dell'incostituzionalita' non  si  estendono
ai rapporti (e solo a quelli) ormai esauriti in modo definitivo,  per
avvenuta formazione del giudicato  o  per  essersi  verificato  altro
evento cui  l'ordinamento  collega  il  consolidamento  del  rapporto
medesimo, ovvero per essersi  verificate  preclusioni  processuali  o
decadenze  e  prescrizioni  non  direttamente  investite,  nei   loro
presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalita' (tra  le
tante,  Cassazione  n.  9329/2010,  n.  113/2004,  n.   13839/2002)»;
Consiglio  di  Stato  n.  4583.2012:   «le   pronunce   della   Corte
costituzionale ... determinano il venir meno in via retroattiva della
norma  censurata,  poiche'  operano  la  ricognizione  di  un   vizio
originario ed intrinseco della  norma  stessa,  la  cui  eliminazione
dall'ordinamento non e' assimilabile a quella disposta per effetto di
abrogazione in virtu' di altra  norma  sopravvenuta»;  Cassazione  n.
10958.2010:  «le  sentenze  di  accoglimento  di  una  questione   di
legittimita' costituzionale pronunciate  dalla  Corte  costituzionale
hanno  effetto  retroattivo,  con  l'unico  limite  delle  situazioni
consolidate  per  essersi  il   relativo   rapporto   definitivamente
esaurito, potendosi, in proposito, legittimamente ritenere "esauriti"
i soli rapporti rispetto ai quali si sia formato il giudicato, ovvero
sia decorso il termine prescrizionale o decadenziale  previsto  dalla
legge»;  Cassazione  n.  27264.2008:   «le   sentenze   della   Corte
costituzionale con le quali  sia  stata  dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale di una norma hanno effetto  retroattivo  ed  incidono,
pertanto, su tutte le situazioni giuridiche non esaurite. Ne consegue
che le suddette sentenze  producono  i  propri  effetti  su  tutti  i
giudizi in corso e possono essere fatte valere  per  la  prima  volta
anche in sede di legittimita'»). 
    4.3 Sennonche' il legislatore,  con  il  decreto-legge  28  marzo
2014, n. 47 (recante «misure urgenti per l'emergenza  abitativa,  per
il mercato delle costruzioni e per Expo 2015»), come convertito,  con
modificazioni,  in  legge  23  maggio  2014,   n.   80,   introduceva
nell'ordinamento la norma (art. 5, comma 1-ter) del seguente tenore: 
        «1-ter. Sono fatti salvi, fino  alla  data  del  31  dicembre
2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla  base
dei contratti di locazione registrati ai sensi dell'articolo 3, commi
8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23». 
    Anche  tale  disposizione  veniva  dichiarata  costituzionalmente
illegittima - per violazione (palese)  del  giudicato  costituzionale
derivante dalla sentenza della Corte, n. 50/2014 -  con  sentenza  16
luglio 2015, n. 169 nella Gazzetta Ufficiale, 22 luglio, n.  29),  di
cui e' opportuno riportare alcuni passaggi: 
        «La disposizione all'esame e' stata  introdotta  in  sede  di
conversione, ad opera della legge n. 80 del 2014,  del  decreto-legge
n. 47 del 2014, a seguito e in conseguenza della sentenza  di  questa
Corte n. 50  del  2014,  depositata  il  14  marzo  2014,  che  aveva
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 8 e  9,
del decreto legislativo n. 23 del 2011, in tema  di  rideterminazione
ex lege di elementi di contratti  di  locazione  non  registrati  nei
termini. Essa e'  stata  inserita  nell'ambito  di  un  provvedimento
diretto in primis, secondo le intenzioni dichiarate nel preambolo del
provvedimento d'urgenza, «a fronteggiare la grave emergenza abitativa
in atto e a adottare misure volte a rilanciare in  modo  efficace  il
mercato delle costruzioni» e nel  contesto  di  un  articolo  (il  5)
dedicato, secondo l'originaria rubrica, alla  «Lotta  all'occupazione
abusiva di immobili». Con essa il  legislatore  ha,  nella  sostanza,
prorogato l'efficacia e  la  validita'  dei  contratti  di  locazione
registrati    sulla    base     delle     disposizioni     dichiarate
costituzionalmente illegittime. 
    Come emerge dai lavori parlamentari  e  dalle  dichiarazioni  del
relatore, la norma «salvaguarda fino al 31 dicembre 2015 gli  effetti
della legge contro gli affitti in nero che la Corte costituzionale ha
cancellato. Si e' trovata una soluzione che non mette in  discussione
la sentenza, ma riconosce che coloro che ne  hanno  beneficiato  oggi
non possono subire le  conseguenze  di  aver  applicato  la  legge  e
garantisce loro un tempo congruo per non dover sopportare un aggravio
ingiusto delle proprie condizioni di vita».  Appare,  dunque,  palese
che l'intento  perseguito  dal  Parlamento  era,  per  l'appunto,  di
preservare, per un certo tempo, gli effetti prodotti dalla  normativa
dichiarata costituzionalmente illegittima, facendo beneficiare di una
singolare prorogatio la categoria degli inquilini. 
    Appare, in altri termini, del tutto evidente che  il  legislatore
si e' proposto non gia' di disciplinare medio tempore - o ex novo e a
regime - la tematica degli affitti  non  registrati  tempestivamente,
magari attraverso un rimedio ai vizi  additati  da  questa  Corte;  e
neppure quello di «confermare» o di «riprodurre»  pedissequamente  il
contenuto   normativo   di   norme   dichiarate    costituzionalmente
illegittime;   ma   semplicemente   quello   d'impedire,   sia   pure
temporaneamente, che la declaratoria di illegittimita' costituzionale
producesse le previste conseguenze, vale  a  dire  la  cessazione  di
efficacia  delle  disposizioni  dichiarate  illegittime  dal   giorno
successivo   alla   pubblicazione   della   decisione    (art.    136
della Costituzione). 
    Nella sua stessa formulazione  letterale,  del  resto,  la  norma
censurata, evidentemente priva di autonomia, si prefigge soltanto  di
ricostituire una base normativa per «effetti» e «rapporti» relativi a
contratti che,  in  conseguenza  della  pronuncia  di  illegittimita'
costituzionale,  ne  sarebbero  rimasti  privi:  ne'   il   carattere
temporaneo della disposizione sembra risolvere il problema e  nemmeno
attenuarne la portata. 
    Al riguardo, va rammentato come, sin da epoca ormai risalente, la
giurisprudenza costituzionale non abbia mancato  di  sottolineare  il
rigoroso  significato  della  norma  contenuta  nell'art.  136  della
Costituzione: su di essa - si e' detto - «poggia il contenuto pratico
di tutto il sistema delle garanzie  costituzionali,  in  quanto  essa
toglie immediatamente ogni efficacia alla norma  illegittima»,  senza
possibilita'  di  «compressioni  od  incrinature  nella  sua   rigida
applicazione»  (sentenza  n.  73   del   1963,   che   dichiaro'   la
illegittimita'  di  una   legge,   successiva   alla   pronuncia   di
illegittimita' costituzionale, con  la  quale  il  legislatore  aveva
dimostrato «alla evidenza» la volonta' di «non accettare la immediata
cessazione dell'efficacia giuridica della norma  illegittima,  ma  di
prolungarne la vita sino all'entrata in vigore  della  nuova  legge»;
tra le altre pronunce risalenti, la sentenza n. 88 del 1966,  ove  si
e' precisato che il precetto costituzionale,  di  cui  si  e'  detto,
sarebbe violato «non solo ove espressamente  si  disponesse  che  una
norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia», ma anche ove
una legge, per il modo con cui provvede  a  regolare  le  fattispecie
verificatesi  prima  della  sua  entrata  in  vigore,  perseguisse  e
raggiungesse,  «anche  se  indirettamente,  lo  stesso   risultato»).
Principi, questi, ripresi e ribaditi  in  numerose  altre  successive
decisioni (fra le altre, le sentenze n. 73 del 2013; n. 245 del 2012;
n. 354 del 2010; n. 922 del 1988; 223 del 1983). 
    Se appare, infatti, evidente che una pronuncia di  illegittimita'
costituzionale non possa,  in  linea  di  principio,  determinare,  a
svantaggio del legislatore, effetti corrispondenti  a  quelli  di  un
«esproprio» della potesta' legislativa sul punto - tenuto anche conto
che una  declaratoria  di  illegittimita'  ha  contenuto,  oggetto  e
occasione circoscritti dal «tema» normativo devoluto e dal «contesto»
in cui la pronuncia demolitoria e' chiamata ad iscriversi -,  e'  del
pari evidente, tuttavia, che questa non possa  risultare  pronunciata
«inutilmente», come accadrebbe quando una accertata violazione  della
Costituzione  potesse,  in  una   qualsiasi   forma,   inopinatamente
riproporsi. E se, percio', certamente il legislatore  resta  titolare
del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia,  e'
senz'altro  da  escludere  che  possa  legittimamente  farlo -   come
avvenuto nella specie - limitandosi a «salvare», e cioe' a «mantenere
in vita», o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni  che,
in ragione della dichiarazione di illegittimita' costituzionale,  non
sono piu' in grado di produrne. Il contrasto  con  l'art.  136  della
Costituzione  ha,  in  un  simile  frangente,   portata   addirittura
letterale. 
    In altri termini: nel mutato contesto di  esperienza  determinato
da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto
discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volonta'
normativa censurata dalla Corte; un altro conto e' emanare  un  nuovo
atto diretto esclusivamente a prolungare  nel  tempo,  anche  in  via
indiretta, l'efficacia di norme che «non possono  avere  applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»  (art.  30,
terzo comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  -  Norme  sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). 
    Ne'  puo'  reputarsi  meritevole  di  pregio  l'argomento   speso
dall'Avvocatura  generale   a   proposito   della   circostanza   che
l'illegittimita' costituzionale sia stata dichiarata per  difetto  di
delega, che costituirebbe appena un vizio formale. 
    E', infatti, pacifico che una sentenza caducatoria produca i suoi
previsti  effetti  quale  che  sia  il  parametro  costituzionale  in
riferimento al  quale  il  giudizio  sia  stato  pronunciato,  senza,
percio',  che  sia  possibile  differenziarne   o   quasi   graduarne
l'efficacia». 
    All'esito di tale pronunzia, ancora una volta, il  tribunale  non
avrebbe  potuto  negare,  all'attore,  il  diritto  di   esigere   la
differenza tra canone convenuto tra parti,  nel  contratto  (sia  pur
tardivamente) registrato, ed il  canone  sanzionatorio  calcolato  in
base alle disposizioni dell'art. 3, comma 8, del decreto  legislativo
n. 23/2011, gia' dichiarate  incostituzionali  dalla  sentenza  Corte
costituzionale   n.   50/2014,   non   essendo   consentita    alcuna
applicazione, ne' diretta, ne'  indiretta  di  tali  disposizioni,  a
prescindere dal momento di insorgenza della  fattispecie  dedotta  in
lite, trattandosi - in ogni caso - di rapporto giuridico non esaurito
alla    data    di    pubblicazione    della     ridetta     sentenza
d'incostituzionalita'. 
    4.4  Ancora  pendente  la  lite,   il   legislatore   interveniva
nuovamente nella materia in oggetto, con l'art.  1,  comma  59  della
legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilita' 2016). 
    Tale disposizione, nel sostituire integralmente l'art.  13  della
legge 9 dicembre 1998, n. 431 (cosiddetta legge locazioni abitative),
ha previsto, al comma 5 del novellato art. 13: 
        «Per i conduttori che, per gli effetti  della  disciplina  di
cui all'articolo 3, commi 8 e 9, del  decreto  legislativo  14  marzo
2011,  n.  23,  prorogati   dall'articolo   5,   comma   1-ter,   del
decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 23  maggio  2014,  n.  80,  hanno  versato,  nel  periodo
intercorso dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n.
23 del 2011 al giorno 16 luglio 2015, il canone  annuo  di  locazione
nella misura stabilita dalla disposizione di cui al  citato  articolo
3, comma 8, del decreto legislativo n. 23  del  2011,  l'importo  del
canone di locazione  dovuto  ovvero  dell'indennita'  di  occupazione
maturata, su base annua, e' pari al triplo  della  rendita  catastale
dell'immobile, nel periodo considerato»). 
    5.   Tale   l'excursus   di   leggi   e   di   declaratorie    di
incostituzionalita',  che  si  sono  susseguite  in  relazione   alla
fattispecie dedotta in giudizio, attualmente esitate nella  norma  di
legge, da ultimo nominata e trascritta, il tribunale dubita della sua
conformita' a costituzione,  suscitando  questa  gli  stessi  rilievi
mossi al previgente art. 5, comma 1-ter del decreto-legge n. 47/2014,
e potendosi quindi prefigurare  la  violazione  dell'art.  136  della
Costituzione, a termini del quale: 
        «Quando la Corte dichiara le illegittimita' costituzionale di
una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia  dal  giorno  successivo  alla  pubblicazione   della
decisione». 
    Ancora una volta, si puo'  sospettare  l'elusione  del  giudicato
(sostanziale) di cui alla sentenza Corte costituzionale n. 50/2014, e
cio' a lume sia dei  numerosi  arresti  della  Corte  costituzionale,
intervenuti sul tema, sia delle precise  ed  inequivoche  indicazioni
contenute nella sentenza del giudice delle leggi n. 169/2015, che  ha
ribadito  l'intangibilita'  del  decisum  di  cui   alla   precedente
pronuncia n. 50/2014. 
    Infatti, pare piuttosto evidente che: 
        la disposizione in esame fa  esplicito  e  testuale  richiamo
alle norme sia dell'art. 3, commi 8 e 9 del  decreto  legislativo  n.
23/2011, sia  dell'art.  5,  comma 1-ter  decreto-legge  n.  47/2014,
rispettivamente  dichiarate  incostituzionali  con  le  sentenze   n.
50/2014,  nonche'  n.  169/2015,  per  individuare  il   suo   ambito
(temporale) di applicazione (retroattiva), facendolo  coincidere  con
quello di precaria vigenza delle predette norme,  benche'  dichiarate
illegittime  e  quindi  da  considerare  come  non   mai   introdotte
nell'ordinamento; 
        la medesima disposizione non si rivolge, indiscriminatamente,
a tutti coloro che abbiano (o abbiano avuto)  la  qualita'  di  parte
conduttore,   in   un   contratto   di   locazione   abitativa    non
tempestivamente registrato, ma circoscrive,  ulteriormente,  l'ambito
soggettivo della platea dei destinatari, ai conduttori  che  abbiano,
di fatto, gia' «beneficiato» degli effetti  delle  disposizioni  gia'
scrutinate  non   conformi   a   costituzione,   cosi'   prescrivendo
testualmente: «Per i conduttori che, per gli effetti della disciplina
di cui all'articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14  marzo
2011,  n.  23,  prorogati   dall'articolo   5,   comma   1-ter,   del
decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 23  maggio  2014,  n.  80,  hanno  versato,  nel  periodo
intercorso dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n.
23 del 2011 al giorno 16 luglio 2015, il canone  annuo  di  locazione
nella misura stabilita dalla disposizione di cui al  citato  articolo
3, comma 8, del decreto legislativo n. 23 del 2011...»; 
        tale disposizione reitera, quanto al suo contenuto precettino
(«... l'importo del canone di locazione dovuto ovvero dell'indennita'
di occupazione maturata, su base  annua,  e'  pari  al  triplo  della
rendita catastale dell'immobile, nel periodo considerato»), la  norma
di cui all'art. 3, comma 8, lettera c)  del  decreto  legislativo  n.
23/2011 («il canone annuo di locazione e' fissato in misura  pari  al
triplo della rendita catastale ...»), e fa si', che - in  breve  -  i
conduttori che abbiano beneficiato «degli effetti» delle disposizioni
incostituzionali, continueranno a beneficiarne sine die, creando  una
sorta  di  «zona  franca»  dagli  effetti   delle   declaratorie   di
incostituzionalita' sopra nominate, per il resto cogenti e vincolanti
per il resto della platea dei destinatari. 
    A parere del tribunale,  la  questione  qui  rilevata  merita  il
vaglio  del  giudice  delle  leggi:  infatti,  come  gia'  detto,  la
disposizione in esame fa rinvio, anche testuale, a  norme  scrutinate
incostituzionali, riproducendone  il  precetto  dispositivo,  si'  da
risultarne  (in  conclusione)  preservati  gli  effetti,  come   gia'
prodotti nel  periodo  di  loro  precaria  vigenza,  e  da  risultare
vanificate  le  statuizioni  recate  dalle   sentenze   della   Corte
costituzionale, sopra menzionate (n. 50/2014 e n. 169/2015). 
    In materia di violazione, o comunque di  elusione  del  giudicato
costituzionale (art. 136 della Costituzione) la Corte  costituzionale
ha avuto in piu' occasioni modo di affermare (cosi' ad esempio  Corte
costituzionale n.  326.2010)  che  «perche'  vi  sia  violazione  del
giudicato costituzionale e' necessario  che  una  norma  sopravvenuta
ripristini o  preservi  l'efficacia  di  una  norma  gia'  dichiarata
incostituzionale»; o ancora (cosi' la sentenza  Corte  costituzionale
n. 73/2013) che: «il giudicato costituzionale e' violato... quando il
legislatore emana una norma che costituisce una mera riproduzione  di
quella gia' ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche  laddove  la
nuova  disciplina  miri  a  perseguire  e  raggiungere,   "anche   se
indirettamente",    esiti    corrispondenti»    (v.    anche    Corte
costituzionale, sentenza n. 262/2009: «per  aversi  tale  lesione  e'
necessario che una norma ripristini o  preservi  l'efficacia  di  una
norma gia' dichiarata incostituzionale»). 
    Nella sentenza Corte  costituzionale  n.  49/1970,  si  legge  in
motivazione: 
        «La   declaratoria    di    illegittimita'    costituzionale,
determinando la cessazione di  efficacia  delle  norme  che  ne  sono
oggetto, impedisce, invece, dopo la pubblicazione della sentenza, che
le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai  quali
sarebbero state applicabili alla stregua dei  comuni  principi  sulla
successione delle leggi nel tempo. Altro e', infatti, il mutamento di
disciplina attuato per motivi di opportunita'  politica,  liberamente
valutata dal legislatore, altro l'accertamento, ad opera  dell'organo
a cio' competente, della illegittimita' costituzionale di  una  certa
disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a  differenza  che
nella prima, e' perfettamente logico  che  sia  vietato  a  tutti,  a
cominciare  dagli  organi  giurisdizionali,  di  assumere  le   norme
dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione  di  qualsivoglia
fatto  o  rapporto,  pur  se  venuto  in  essere  anteriormente  alla
pronuncia della Corte. L'obbligatorieta' delle decisioni della Corte,
cui si richiama in particolare l'ordinanza del tribunale di  Ferrara,
si esplica a partire dal giorno successivo alla  loro  pubblicazione,
come  stabilito  dall'art.  136  della  Costituzione,  nel  senso   -
precisamente  -  che  da  quella  data  nessun  giudice  puo',   fare
applicazione  delle  norme   dichiarate   illegittime,   nessun'altra
autorita' puo' darvi esecuzione o assumerle comunque a base di propri
atti, e nessun privato potrebbe avvalersene, perche'  gli  atti  e  i
comportamenti che pretendessero trovare in quelle la  propria  regola
sarebbero privi di fondamento legale.  Si  spiega  cosi'  come  anche
questioni di legittimita' costituzionale di norme abrogate  da  leggi
ordinarie frattanto sopravvenute possano  essere  rilevanti,  e  come
tali avere ingresso alla Corte, qualora si tratti di norme di cui  si
dovrebbe fare ancora applicazione in  base  ai  principi  di  diritto
intertemporale». 
    Tali principi sono stati, da ultimo, ribaditi nella  sentenza  n.
169/2015, intervenuta nella materia in oggetto, e parrebbero  potersi
predicare anche per la  fattispecie  esaminata;  ragion  per  cui  va
rimessa, alla Corte, la questione di legittimita' ora  rilevata,  per
violazione dell'art. 136 della Costituzione. 
    6. Il tribunale dubita, altresi', della conformita'  della  norma
in esame  al  principio  di  ragionevolezza  (ed  eguaglianza)  posto
dall'art. 3 della Costituzione. 
    Infatti,  occorre  notare  che  la  disposizione  in  oggetto  e'
inserita - quale comma 5 - nel nuovo testo dell'art. 13  della  legge
n. 431/1998 (legge sulle locazioni  abitative),  quale  adottato,  in
sostituzione del previgente, merce' il  medesimo  art.  1,  comma  59
della legge n. 208/2015 (legge di stabilita'). 
    Secondo l'attuale art. 13 della legge n. 431/1998, come novellato
dall'art. 1, comma 59 della legge di stabilita' 2016: 
        «1. E' nulla ogni pattuizione volta a determinare un  importo
del canone di locazione superiore a quello risultante  dal  contratto
scritto e registrato. E' fatto carico al locatore di provvedere  alla
registrazione  nel  termine  perentorio  di  trenta  giorni,  dandone
documentata  comunicazione,  nei  successivi  sessanta   giorni,   al
conduttore   ed   all'amministratore   del   condominio,   anche   ai
fini dell'ottemperanza  agli   obblighi   di   tenuta   dell'anagrafe
condominiale di cui all'articolo 1130, numero 6), del codice civile. 
        2. Nei casi di nullita' di cui al comma 1 il conduttore,  con
azione  proponibile  nel  termine  di  sei  mesi   dalla   riconsegna
dell'immobile locato,  puo'  chiedere  la  restituzione  delle  somme
corrisposte in misura superiore al canone  risultante  dal  contratto
scritto e registrato. 
        3. E' nulla ogni pattuizione volta a derogare  ai  limiti  di
durata del contratto stabiliti dalla presente legge. 
        4. Per i contratti di cui al comma 3  dell'art.  2  e'  nulla
ogni pattuizione volta ad attribuire al locatore un canone  superiore
a quello massimo definito dagli accordi conclusi in sede  locale  per
immobili aventi  le  medesime  caratteristiche  e  appartenenti  alle
medesime tipologie. Per i contratti stipulati  in  base  al  comma  1
dell'art. 2, e' nulla, ove in contrasto  con  le  disposizioni  della
presente  legge,  qualsiasi  pattuizione  diretta  ad  attribuire  al
locatore un canone superiore a quello contrattualmente stabilito. 
        5. Per i conduttori che, per gli effetti della disciplina  di
cui all'art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14  marzo  2011,
n. 23, prorogati dall'art. 5, comma 1-ter, del decreto-legge 28 marzo
2014, n. 47, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  23  maggio
2014, n. 80, hanno versato, nel  periodo  intercorso  dalla  data  di
entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2011 al giorno 16
luglio 2015, il canone annuo  di  locazione  nella  misura  stabilita
dalla disposizione di cui al citato art.  3,  comma  8,  del  decreto
legislativo n. 23 del 2011, l'importo del canone di locazione  dovuto
ovvero dell'indennita' di occupazione maturata,  su  base  annua,  e'
pari al triplo della rendita  catastale  dell'immobile,  nel  periodo
considerato. 
        6. Nei casi di nullita' di cui al comma 4 il conduttore,  con
azione  proponibile  nel  termine  di  sei  mesi   dalla   riconsegna
dell'immobile locato, puo' richiedere  la  restituzione  delle  somme
indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore puo'  altresi'
richiedere, con azione proponibile dinanzi all'autorita' giudiziaria,
che la locazione venga ricondotta  a  condizioni  conformi  a  quanto
previsto dal comma 1 dell'art. 2 ovvero dal comma 3 dell'art. 2. Tale
azione e', altresi', consentita nei casi in cui il locatore non abbia
provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine di
cui al comma 1  del  presente  articolo.  Nel  giudizio  che  accerta
l'esistenza del contratto di locazione il giudice determina il canone
dovuto, che non puo' eccedere quello del valore  minimo  definito  ai
sensi dell'art. 2 ovvero quello definito ai sensi dell'art. 5,  commi
2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per  i
motivi  ivi   regolati.   L'autorita'   giudiziaria   stabilisce   la
restituzione delle somme eventualmente eccedenti. 
        7. Le  disposizioni  di  cui  al  comma  6  devono  ritenersi
applicabili a tutte le ipotesi ivi previste insorte sin  dall'entrata
in vigore della presente legge. 
        8. I riferimenti alla registrazione del contratto di cui alla
presente legge  non  producono  effitti  se  non  vi  e'  obbligo  di
registrazione del contratto stesso». 
    Dalla lettura dell'intero art. 13 legge Locazioni Abitative,  nel
testo attualmente in vigore, si ricava (v. comma  6)  che,  nel  caso
«...  in  cui  il  locatore  non  abbia  provveduto  alla  prescritta
registrazione del contratto nel termine di cui al comma 1 ...»  dello
stesso articolo (trenta giorni),  il  conduttore  abbia  facolta'  di
agire in giudizio per ottenere che «... la locazione venga ricondotta
a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1  dell'articolo  2
ovvero dal comma 3 dell'articolo 2 ...», ed in particolare per  veder
determinare, dal  giudice,  «...  il  canone  dovuto,  che  non  puo'
eccedere quello del valore  minimo  definito  ai  sensi  dell'art.  2
ovvero quello definito ai sensi art. 5, commi 2  e  3,  nel  caso  di
conduttore  che  abiti  stabilmente  l'alloggio  per  i  motivi   ivi
regolati. L'autorita' giudiziaria stabilisce  la  restituzione  delle
somme eventualmente eccedenti». 
    Se, dunque, la registrazione tardiva del contratto  di  locazione
abitativa, alla stregua dell'art.  13,  nella  formulazione  vigente,
produce il diritto (potestativo) del conduttore di vedere commisurare
il corrispettivo, dovuto al locatore, al canone agevolato di cui agli
articoli 2,  comma 3  e  5  legge  n.  431/1998,  nel  valore  minimo
quantificabile  in  base   agli   accordi   (locali)   conclusi   tra
organizzazioni   sindacali   maggiormente    rappresentative    della
proprieta' e  degli  inquilini,  se,  in  altri  termini,  lo  stesso
legislatore ritiene congruo ed equo regolamentare, in  tal  modo,  la
fattispecie della registrazione tardiva del  contratto  di  locazione
abitativa,  se -  infine  -  lo  stesso  art.  13,  con  disposizione
(transitoria)  non  perspicua,   stabilisce   sibillinamente   essere
applicabile  «...  a  tutte  le  ipotesi  ivi  previste  insorte  sin
dall'entrata in vigore  della  presente  legge»  (comma  7),  si'  da
suscitare il dubbio della sua portata  retroattiva,  non  si  vede  a
quale criterio di ragionevolezza risponda a scelta di «confermare»  e
riprodurre, oltretutto nello stesso contesto normativo, il  contenuto
precettivo di pregresse disposizioni incostituzionali,  che  facevano
appello al diverso parametro del triplo della rendita  catastale,  ed
oltretutto esclusivamente  per  i  conduttori  che,  nel  periodo  di
precaria  vigenza   di   quelle   norme,   avessero   (fortuitamente)
beneficiato degli effetti di queste ultime (versando «...  il  canone
annuo di locazione nella misura stabilita dalla disposizione  di  cui
al citato art. 3, comma 8, del decreto legislativo n. 23 del 2011»). 
    Da qui, il sospetto che  tale  scelta  abbia  risposto  all'unico
scopo (la cui meritevolezza e' dubbia, alla stregua dell'art. 3 della
Costituzione)  di  vanificare,   per   il   passato,   il   principio
d'intangibilita' del giudicato  costituzionale,  in  reiterazione  di
opzioni  legislative  gia'   scrutinate   violative   del   giudicato
d'incostituzionalita', e creando disparita' nella regolamentazione di
situazioni che, in  ossequio  all'art.  136  della  Costituzione,  si
presentavano identiche. 
    7.  Conclusivamente,  non  potendosi  prescindere,  in  sede   di
decisione della presente controversia, dall'applicazione dell'art. 1,
comma 59, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, nella  parte  in  cui
dispone che «Per i conduttori che, per gli effetti  della  disciplina
di cui all'articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14  marzo
2011,  n.  23,  prorogati   dall'articolo   5,   comma   1-ter,   del
decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 23  maggio  2014,  n.  80,  hanno  versato,  nel  periodo
intercorso dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n.
23 del 2011 al giorno 16 luglio 2015, il canone  annuo  di  locazione
nella misura stabilita dalla disposizione di cui al  citato  articolo
3, comma 8, del decreto legislativo n. 23  del  2011,  l'importo  del
canone di locazione  dovuto  ovvero  dell'indennita'  di  occupazione
maturata, su base annua, e' pari al triplo  della  rendita  catastale
dell'immobile, nel periodo considerato», ed  apparendo  (in  sintesi)
rilevante e non manifestamente infondata la questione sopra  esposta,
si provvede come in dispositivo.